Johan Cruyff Institute: Jorge Valdano, Roberto Martínez e Vítor Baía, una conversazione su come gestire il cambiamento di funzione dei calciatori quando arrivano a fine carriera: da star e padroni del campo a “intrusi” nel mondo del lavoro
“Se siamo realistici, ci sono due cose nel calcio professionistico che hanno pochissima importanza per i soggetti in questione: i futuri calciatori e gli ex-calciatori”. Jorge Valdano non gira tanto intorno al tema quando si tratta di analizzare la realtà dei protagonisti principali nel settore del calcio. Né incolpa nessuno. L’argentino riconosce che i primi che devono riflettere e cercare nuovi obiettivi quando la loro carriera giunge al termine sono i giocatori stessi. A partire, naturalmente, dal fatto che “non troveranno mai nulla di eccitante come vivere giocando, che è un’estensione della loro infanzia, un privilegio che solo gli atleti hanno”.
Dei tre ex giocatori che il Johan Cruyff Institute ha invitato al World Football Summit, Jorge Valdano è stato quello che per primo ha dovuto affrontare la realtà del ‘ giorno dopo ‘. Vítor Baía lo ha fatto un po’ più tardi mentre Roberto Martínez è ancora attivo come allenatore, anche se il momento arriverà anche per lui. Tre opinioni ponderate, tre esperienze diverse, e prospettive diverse, quando si tratta di discutere il panorama che un calciatore deve affrontare quando, prima o poi, deve iniziare a pensare di appendere le scarpe al chiodo.
Il Johan Cruyff Institute ha approfittato dell’occasione del World Football Summit a Madrid per una discussione sull’importanza della formazione accademica per un gruppo di persone che possono, con gli strumenti necessari, beneficiare di una vita fatta di esperienza e possono o vogliono trovarsi a gestire istituzioni sportive. Che cosa è e quale dovrebbe essere il ruolo della formazione accademica durante gli anni attivi come giocatore? Che cosa possono i calciatori portare come contributo al settore una volta in “pensione”? Sono quelli che capiscono meglio il business, proprio grazie ai molti anni come attori principali? Hanno una sensibilità speciale per individuare ciò di cui il calcio ha bisogno come business dai suoi dirigenti e leader? Chi dovrebbe essere responsabile per la loro formazione per essere preparati per domani? Queste sono alcuni degli argomenti che Jorge Valdano, Vítor Baía e Roberto Martínez hanno discusso.
JORGE VALDANO
Football Analyist e consulente aziendale
Jorge Valdano è uno dei volti più noti del calcio internazionale, con una vita interamente dedicata al ‘ re dello sport ‘ in tutte le sue sfaccettature: come giocatore, allenatore, direttore e, attualmente, come consulente commerciale, commentatore di prestigiosi media e speaker a conferenze internazionali.
Argentino di nascita e spagnolo per adozione, Jorge Valdano ha fatto il suo debutto al Newell ‘ s Old Boys a Rosario all’età di 18 anni, e il suo talento lo portò presto ad attraversare l’oceano e a vivere la sua carriera di giocatore nel calcio europeo. Ha giocato per Alavés, Real Zaragoza e Real Madrid, con il quale ha vinto due Campionati, una Coppa del Re e due Coppe UEFA. Si ritirò nel 1987 dopo essere diventato campione del mondo con l’Argentina nel 1986 e dopo aver giocato 228 partite nella Prima Divisione spagnola, con un totale di 86 goal.
La sua carriera di allenatore e dirigente non è meno brillante. Debuttò sulla panchina del Club Deportivo Tenerife nel 1992, e due anni dopo andò al Real Madrid, arrivando a vincere il campionato e portando diversi nuovi giocatori in prima squadra che in seguito divennero figure importanti per il Club, come Raul e Guti. Il Valencia CF è stata la sua ultima avventura come allenatore, prima di tornare definitivamente al Real Madrid per iniziare la sua carriera dall’altra parte della scrivania. Jorge Valdano è stato Direttore Sportivo dal 1999 al 2003 e Direttore Generale dal 2009 al 2011, ed è stato uno degli uomini chiave nella costruzione della squadra conosciuta come i “Galacticos”. In tutto i suoi titoli con le Merengues come allenatore e dirigente sono stati due Campionati, 1 Supercoppa, 1 Coppa del re, 1 Champions League, 1 Coppa Intercontinentale e 1 Supercoppa europea.
ROBERTO MARTÍNEZ
Allenatore della nazionale belga
Roberto Martínez è un uomo competitivo, abituato a lasciare un segno ovunque vada. Ha iniziato come calciatore nelle categorie minori di Balaguer, il club della sua città natale, ma all’età di 21 anni ha deciso di andare in Inghilterra.
Ci ha passato 21 anni in Inghilterra, prima come giocatore di Wigan, Motherwell e Chester City, e poi come allenatore di Swansea, Wigan e Everton, e questo gli valse visibilità internazionale, diventando per tutti “Bob Martinez”. Al Wigan, Roberto Martinez è diventato il terzo allenatore spagnolo a guidare una squadra di Premier League. Ha contribuito a salvarli dalla retrocessione per tre stagioni consecutive e di vincere la FA Cup, qualcosa di impensabile per un club di queste caratteristiche. Roberto Martinez conta 265 partite come Manager in Premier League.
La nazionale belga si è affidata a lui e non è stata delusa: in primo luogo li ha portati a qualificarsi per la Coppa del mondo 2018 e, una volta in Russia, il terzo posto del Belgio è stata la sua migliore posizione di sempre, perdendo solo con la Francia che diventò campione del mondo.
VÍTOR BAÍA
Ex giocatore di football
Vítor Baía è laureato in Sport Management. È il fondatore e Presidente della Vítor Baía Foundation — una Onlus che sostiene i bambini e i giovani. È direttore del Project 1, la scuola per i portieri della Federcalcio portoghese. Dal 2008 al 2011, è stato direttore delle relazioni internazionali al Porto. Ha una storia importante come portiere, avendo giocato per club come Porto e Barcellona, così come nella nazionale portoghese, ed è stato uno dei portieri di maggior successo al mondo. E’ anche un assiduo collaboratore di vari media in questioni legate allo sport. Inoltre, è autore e co-autore di due libri: Vítor Baía – la Autobiografía e Vítor Baía y amigos cuentan historias para niños.
LA DISCUSSIONE
Ritirarsi, e i benefici della formazione accademica
Jorge Valdano:
“Ci sono due cose che hanno un impatto enorme su un giocatore di calcio. Il primo è l’ingresso nel mondo del calcio che conta, quando si deve affrontare la fama, un sacco di soldi e l’enorme pressione di giocare una partita di fronte a 100.000 persone in uno stadio, con milioni di persone che guardano in televisione. E la seconda cosa che ha un impatto enorme è dover lasciare tutto alle spalle quando si è ancora molto, molto giovani. Penso che tendiamo a sottovalutare i calciatori. Quando un giocatore smette di giocare a calcio sappiamo che non ha competenze sufficienti per iniziare una nuova professione, per reinventarsi, come spesso dicono. Tuttavia, il calcio ti insegna molto, non solo da un punto di vista professionale. Il calcio ti insegna molto da quando si inizia a giocare nel parco e si comincia a capire che si deve rispettare le regole di base, il Fair Play e che si fa parte di una squadra con ruoli diversi. Si impara che bisogna essere determinati e disciplinati per raggiungere gli obiettivi, e i professionisti sanno che devono interpretare questo ai massimi livelli. A 30 anni, 30 e qualcosa, o più di 35 se sei veramente fortunato, devi scoprire un nuovo mondo, e non c’è nulla per preparati a questo psicologicamente. A questa età, altre persone in generale sanno se sono contente di come sono inserite nel mondo del lavoro, o se stanno avendo un momento difficile. In ogni caso, hanno l’esperienza psicologica per prepararsi progressivamente a questa realtà. Al contrario, un calciatore entra in un mondo completamente nuovo e, naturalmente, questo richiede un enorme “salto” mentale. Questo è pesante per i calciatori, perché tutto quello su cui hanno lavorato per tutta la vita si è basato sul talento fisico, giusto? Inizia nella testa e poi scende ai piedi, ma i calciatori sono troppo coccolati, per troppo tempo. Quando sei stato un calciatore professionista di alto livello a lungo, non sai nemmeno come stampare una carta d’imbarco perché qualcuno lo fa sempre per te, e c’è sempre qualcuno che si occupa della prenotazione dell’hotel, e c’è sempre qualcuno che sceglie anche che vestiti devi indossare. Tuttavia, quando un giocatore arriva alla fine della carriera professionale è “coperto” economicamente, se ha giocato ad un livello elevato, soprattutto al giorno d’oggi, ma deve comunque affrontare una realtà nuova, che può essere stimolante. Tra le altre cose, hanno a che fare con i sentimenti comuni un po’ come degli intrusi, anche nella propria famiglia, perché per lungo tempo sono stati più un padre assente che presente, a causa di tutti i viaggi. E cominciano subito a sentirsi fuori posto, a casa propria “.
Vítor Baía:
“Come giocatori, siamo avvolti nella bambagia, e tutti ci trattano molto bene. Non dobbiamo fare nulla, a parte concentrarsi su quello che sappiamo fare, sul nostro training e sulle partite. Ma arriva un momento in cui questa bambagia viene rimossa, e siamo completamente impreparati per il mondo competitivo che ci troviamo davanti, lontano dal calcio. E a quel punto dobbiamo prepararci per una seconda fase della vita. Nel mio caso, ho avuto un anno per prepararmi perché ero in un club che si occupava di questo problema. Sapevo che avrei smesso e a metà dell’anno mi sono iscritto all’Università. Sono andato all’Università 20 anni più tardi rispetto alla maggior parte delle persone perché ho sentito che avevo bisogno di farlo, ma è stata una mia decisione. Non era qualcosa che è stato organizzato per me. Ho sentito che per quello che volevo, avevo bisogno di qualcosa di più, e poi sono diventato direttore delle relazioni internazionali al Porto, dove ho imparato molto, con la squadra con cui avevo giocato. Allo stesso tempo, l’Università era anche una buona preparazione. Penso che sia stato molto, molto importante per me”.
Roberto Martínez:
“Penso che sia una contraddizione enorme, perché stiamo parlando di un problema che è inevitabile. Ho lasciato la Spagna quando ero molto giovane, all’età di 21 anni, e ho vissuto nel Regno Unito per 21 anni. Ho visto giocatori che avevano bisogno di una mano nell’ultimo anno della loro carriera professionistica per far loro vedere che si può provare passione anche per altro nella vita. Ho visto un sacco di giocatori, soprattutto nel campionato inglese, che il giorno in cui si ritirano, muoiono “dentro”. E questo è molto triste, così come molto pericoloso. Ed è a livello istituzionale che si deve intervenire, ad esempio la AFE (associazione calcistica spagnola) in Spagna, o la PFA (associazione calciatori professionisti ) nel Regno Unito, dove un sacco di lavoro è stato fatto per dare ai giocatori la possibilità di pensare, di provare altre cose quando arrivano all’età di 30 anni. Potrebbe essere l’Università, una carriera in un altro campo, ma, a livello umano, è comunque un ciclo. Quello che facciamo quando ci ritiriamo è un problema. Quando accade all’età di 65 anni è naturale, quando accade all’età di 30 può essere catastrofico”.
Le carenze del sistema
Jorge Valdano:
“Se siamo realistici, ci sono due categorie nel calcio professionistico che ahimè hanno pochissima importanza in genere per i soggetti in questione: i futuri calciatori e gli ex-calciatori”. Tutto il focus è sui calciatori di “oggi” e le loro prestazioni. Parlare della fine della tua carriera è un argomento tabù. Siamo così terrorizzati da questo “baratro” che non ne parliamo mai, e questo non sembra una buona idea perché per rimediare ad un problema si deve riconoscere che esiste. Quello che succede è che quello che stai facendo è così appagante e così difficile da sostituire con qualcos’altro, che diventa impossibile attraversare questa linea immaginaria e vedere sè stessi come la persona che saremo tra poco tempo. Questo è un altro dei problemi che è parte dell’essere un calciatore professionista”.
Vítor Baía:
“C’è un punto da fare sulla formazione dei ragazzini. I genitori sono molto importanti nella gestione delle loro aspettative ed ambizioni. Voglio dire, alcuni genitori -e non possiamo raggruppare tutti i genitori insieme- ma alcuni di loro “investono” nei loro figli, perché pensano che saranno giocatori di calcio, ed è terribile. Poi, più tardi, non hanno alcuna qualifica o istruzione, e non tutti avranno una carriera professionistica nel calcio. Penso che questo sia il problema principale e penso che, per quanto riguarda la formazione, gli allenatori e i dirigenti hanno un problema enorme e lo sanno: come gestire anche i genitori e le aspettative che essi creano in persone molto giovani che hanno una decisione molto difficile da prendere, cioè pensare solo allo sport o comunque ottenere una formazione scolastica”.
Chi ha più pressione, giocatori o i dirigenti?
Vítor Baía:
“È più facile quando si è in campo, perché è lì che siamo in controllo della situazione, a volte, anche se non sempre. Ecco, siamo parte di una squadra che è ben organizzata, ben strutturata e ha un obiettivo. In ufficio, siamo dipendenti dal fatto di centrare o meno un obiettivo o se i giocatori giocano nel modo in cui vorremmo noi; siamo responsabili per fare la scelta giusta, per trovare i giocatori giusti (se trovare i giocatori giusti è il nostro lavoro) o l’allenatore giusto che garantirà che la squadra farà un ottimo lavoro. Ma la pressione è fuori. All’interno del campo, tutto è sotto controllo”.
Roberto Martínez:
“Penso che la gente metta sempre pressione su sè stessa. Non importa quello che stai facendo, si fa pressione su sè stessi, e tu sai come distinguere tra ciò che realmente conta, l’opinione pubblica o quella di persone a cui tu dai davvero valore. Penso che quando un giocatore di calcio ha fiducia in sè stesso, il campo è dove si sente più felice, il luogo dove si può dimenticare tutto. E penso che sia lo stesso quando sei in un ufficio e sei bravo per esempio a prendere giocatori o seguire i giovani. Se ti senti bravo in qualcosa allora ti senti bene”.
Il futuro
Vítor Baía:
“Un giorno, tutte le luci si spengono. Le accendi di nuovo e trovi qualcosa a cui non sei nemmeno lontanamente preparato e diventi nervoso. Ho colleghi che hanno sofferto la depressione perché non sanno cosa possono fare. Un ex-calciatore può fare un sacco di cose, e deve trarne il meglio. Ma prima di tutto, bisogna spiegare. Questo è ciò che manca, qualcuno con un piano, qualcuno che ha organizzato un programma, che può dirvi che cosa si può fare quando si smette di giocare a calcio, per farti sentire più tranquillo. Perché essere un ex calciatore non ti dà il diritto ad un lavoro ben retribuito e prestigioso, devi lottare per questo. È quello di cui ho parlato prima, la competitività. Solo perché siamo calciatori d’elite, non significa che possiamo essere il Presidente del Consiglio di Amministrazione di un’azienda, di una società. Devi lottare per questo. Questo è l’obiettivo finale, ma si deve lavorare per seguire la strada verso l’alto”.
Jorge Valdano:
“Il futuro deve iniziare con l’educazione accademica. Essere un calciatore non ti dà il diritto di essere un allenatore, perché sono professioni diverse. Si tratta di vedere il calcio da un’altra prospettiva. Se dovessi dare qualche consiglio a un calciatore per quando si ritira, gli direi di essere certo di riempire i suoi giorni con qualcosa che gli piace. Hanno bisogno di lasciare la “casa di mamma”, cioè il club e l’ambiente, avviare un’attività, fare qualcosa che piace, anche solo un po’. Pur sapendo che non faranno mai nulla di eccitante come passare una vita a giocare, che è un’estensione dell’infanzia. È una cosa incredibile, prolungare l’infanzia, ed è un privilegio che solo gli sportivi hanno”.
Possibili futuri percorsi di carriera
Vítor Baía:
“Abbiamo due opzioni, o lavoriamo nella strategia, nel business e nella formazione o nel settore tecnico. Sono due mondi e c’è molto da esplorare in ognuno di essi. Ma torniamo all’inizio di nuovo. Ci deve essere l’istruzione e la formazione. Hanno bisogno di sapere come parlare in pubblico, parlare più lingue, saper gestire la propria immagine. C’è una serie di situazioni per le quali devono essere preparati. Nel mio caso, nel 2004, ad esempio ho creato una Fondazione perché ho anche sentito il bisogno di aiutare, e per dare un contributo sociale e culturale a chi ne ha più bisogno, bambini e giovani”.
Roberto Martínez:
“Ho sempre detto ai miei giocatori che hanno bisogno di avere due basi, due “fondamentali” non legati allo sport. Devono avere menti curiose e non essere mai pigri. I calciatori lavorano due ore al giorno e il resto del tempo possono fare tutto quello che vogliono. Pertanto, possono studiare le lingue, possono forse interessarsi a qualcosa legato per esempio all’economia, qualcosa di culturale o artistico, qualcosa che può in qualche modo arricchirli, ma in primis evitare la pigrizia perché la cosa più difficile per un calciatore è quello di andare a casa e decidere di fare qualcosa di diverso invece che pensare solo alla partita del prossimo fine settimana. E poi c’è un altro aspetto, un aspetto culturale. In alcuni paesi, l’idea di ex calciatori che hanno una posizione dirigenziale è controversa, ma dobbiamo davvero valutare se sono ben preparati e bravi in quello che fanno. Ci sono paesi come gli Stati Uniti dove gli ex-giocatori sono fortemente incoraggiati ad assumere posizioni dirigenziali perché sono visti come soggetti competenti. In Inghilterra, ad esempio c’è un impegno crescente per garantire che gli ex-calciatori siano preparati e stimolati “.
ITALIA
Johan Cruyff Institute
Il Johan Cruyff Institute è una grande miscela di professori, staff e partners che condividono la passione per “Educating the next generation of Leaders in Sport Management” a beneficio di atleti, partner nello sport, organizzazioni e degli stessi studenti. Secondo Johan Cruyff “La mia visione sullo Sport Management è abbastanza semplice. Penso che le persone con passione per lo sport siano le migliori per guidare le organizzazioni sportive” Al Johan Cruyff Institute pensiamo che la passione per lo sport possa accompagnarsi con formazione e sviluppo.
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